I DOTTORI SONO BUONI QUI, E I TOPI ANCHE, E GLI INFERMIERI. NON MI POSSO LAMENTARE.
POTREI ESSERE CHIUSO NEL GUSCIO DI UNA PICCOLA NOCE E SENTIRMI IL RE DELL'UNIVERSO, MA FACCIO BRUTTI SOGNI, E POI SENTO SEMPRE QUELLE MALEDETTE VOCI DAGLI SCARICHI, CHE NON TACCIONO.

mercoledì 29 febbraio 2012

Hysteria, di Tanya Wexler

Questo film, una corpoduzione tra Gran Bretagna, Francia e Germania, oltre ad essere un piccolo gioiello è indubitabilmente la pellicola col più alto tasso di gambe spalancate senza per questo essere un porno. Di più, non ha nulla di volgare nè di pruriginoso. Anzi, è divertente, leggero ed impegnato al contempo. Con impegnato non intendo dire che sostenga la battaglia - sacrosanta - di chi gira un film per difendere la giraffa nana dell'Antartide occidentale messa a rischio dal riscaldamento globale e dalle troppe sedi di MacDonald aperte in loco. Si tratta di un impegno diverso, un impegno su una lotta che altri hanno combattutto e, se Dio vuole, vinto. Che la scienza ha vinto in una strenua battaglia contro sè stessa, una scienza, ci mostra il film, un tantino sbilenca, sia quella vinta che quella vittoriosa. Sbilenca vista da qui, dal nostro punto di vista, attraverso la lente degli anni che sono trascorsi. Una battaglia che ha partorito risultati importanti e liberatori, ma un tantino differenti tra loro. L'abolizione (col tempo, non subito, nel 1952) della diagnosi di isteria femminile legata a... più o meno tutto... stress, depressione, stanchezza, rabbia, e via e via e via. E, in secondo luogo, l'altro risultato, quello che più rende appetibile e divertente il film ai palati anche meno sopraffini: il vibratore. Il film ci mostra come nasce l'invenzione di quello che oggi è comunemente conosciuto come vibratore (in spagnolo, impagabile: consolador). Nasce in ambito medico, nell'ambito della medicina dell'epoca che curava (o credeva di curare) l'isteria femminile del titolo. nasce da un medico che a furia di massaggi vulvici (o vaginali o come diavolo si chiamavano) si trova a non poter più usare appieno il proprio braccio destro. Quindi viene partorita da un medico con un braccio menomato da troppe vagine isteriche e dal cervello di un amico del detto medico (l'eccellente e miracolosamente uguale a sè stesso Rupert Everett), un nobile annoiato ed appassionato di elettricità (i primi telefoni, piumini rotanti per la polvere e via discorrendo).

 Quello che resta è un medico (e soprattutto un inglese) vecchio stampo, sono due sorelle troppo diverse l'una dall'altra, così diverse da essere esattamente agli antipodi, sono una società che cambia troppo in fretta e al contempo troppo lentamente, in maniera troppo radicale a livello sotterraneo e per nulla o quasi a livello di convenzioni sociali, quello che resta è l'eterno duello tra forze innovatrici e forze conservatrici, tra uomini e donne, tra poveri e ricchi ed è soprattutto il medico - il protagonista del film - che si trova nel mezzo di tutte queste tensioni che si sviluppano (e si avviluppano) con forza inaudita ma sempre in punta di fioretto, come se si trattasse di una discussione tra gentiluomini all'ora del thè. Quello che resta è la condizione delle donne in un epoca non troppo lontana dalla nostra, e dei poveri, e delle donne povere, è la visione del sesso di un'intera società divenuta famosa per il detto "niente sesso, siamo inglesi", e delle nevrosi che tale rinuncia alla giocosità dello stesso porta inevitabilmente con sè.
  Che dire? Magnifiche le scenografie. Ottima la sceneggiatura che gioca sui toni della commedia senza scadere nell'ovvio o nel volgare, che ammicca all'impegno sociale senza per questo divenire tediosa nè tantomeno didascalica. Buone le interpetazioni, supportate da una regia classica ma solida e dal lavoro fatto dagli sceneggiatori sui dialoghi e sulla rotondità dei personaggi.
  Una commedia divertente, seria, compatta, come sanno fare gli inglesi, come una volta, con altre caratteristiche, sapevamo fare anche noi, prima di essere invasi da cinepanettoni, notti prima degli esami, commediucole adolescenziali, e checchizaloni vari.
  Consigliatissima.


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Hysteria

Un film di Tanya Wexler. Con Maggie Gyllenhaal, Hugh Dancy, Jonathan Pryce, Rupert Everett, Ashley Jensen.
continua»
Titolo originale Hysteria. Commedia rosa, durata 100 min. - Gran Bretagna, Francia, Germania 2011. -

venerdì 17 febbraio 2012

Kosmos, di Reha Erdem (2010)

  Un tizio si trascina in una steppa innevata fino a giungere ad una città (o cittadina o centro abitato): praticamente è come se ci cadesse dentro. Come prima cosa cerca una pietra ai lati del fiume sotto la quale nascondere un mazzo di banconote, giusto quando nelle acque gelide del fiume scorre il corpo di un bambino. La sorella del bambino, dall'altro lato del fiume, urla. Il tizio si getta tra le acque e recupera il bambino, se lo stringe al petto e lo scuote, emettendo urla insensate che paiono essere una via di mezzo tra l'urlo di un muhezzin e il verso di mille ghiandaie impazzite. Il bambino è sano e salvo e la sorella se lo porta via. Siamo in una qualche cittadina turca presumibilmente ai confini con la Russia, un posto molto bello e terribilmente freddo. Il padre del bambino salvato trova il tizio e lo ringrazia mettendosi a sua disposizione perchè abbia da mangiare ed un posto dove dormire lontano dai rigori del gelo. Il tizio, di tanto in tanto, incrocia la sorella del bambino salvato e - semplicemente - si rincitrullisce, prende ad emettere il suo verso assurdo e, cosa ancora più ridicola, lei gli risponde a tono, vale a dire emettendo versi strani pure lei. Una scappa, l'altro la insegue, e quando si trovano (quando cioè lei si lascia prendere) si girano attorno l'un l'altro e fingono di mordersi mimando qualche danza animalesca non ben chiara. In un'occasione nel corso del film, vincono la gravità e volano in giro per la stanza dove il tizio - Kosmos - ha trovato dimora. Il padre della ragazza e del bambino salvato - che indoviniamo essere vedovo - lavora in un macello, e la regia ci porta spesso sui primissimi piani delle bestie, sui loro occhi, e sui loro corpi squartati (il padre risponde alla figlia che gli domanda se le bestie sanno di dover morire, che loro sono pure contente di doverlo fare, perchè quello è il loro ruolo). Poi c'è il bar, che è il punto d'incontro di molte delle storie (storie?) che s'intrecciano nel film, dove Kosmos dovrebbe darsi da fare per guadagnarsi due soldi come cameriere-tuttofare ed essere accettato dalla comunità, ma dove in realtà non combina nulla. Gli avventori, tutti vecchi, continuano a sostenere che la loro città è abitata solo da persone buone e che, da loro, il male non attecchisce. Però in sottofondo sentiamo in continuazione rumori di aerei e di bombe, come se una battaglia si stesse svolgendo nelle vicinanze e si stesse, poco alla volta, avvicinando. Oltre alla bella ragazza che ulula e che pare essere l'unica a capire in qualche maniera Kosmos, ci sono un bambino che non parla e lancia pietre (e viene sonoramente pestato dai suoi coetanei), una donna che zoppica e che si fionda in farmacia a comprare dei medicinali non appena le è possibile, ma che puntualmente viene riportata indietro da una parente non meglio specificata, una maestra con vent'anni di insegnamento sulle spalle che arriva in città e che non è esattamente felice di essere finita in culo al mondo (non usa proprio queste parole), un gruppo di fratelli che se ne vanno in giro con la bara del padre morto sulla macchina e incolpano uno di loro della morte del genitore, delle oche che se ne vanno in giro per i vicoli sculettando sul ghiaccio (sequenza magnifica!) e un vecchio catarroso. Ora, oltre a non avere una gran voglia di lavorare, come risulta evidente innanzi tutto al barista, che presto si stufa di regalargli tazze di thè e di cercare di convincerlo a lavorare per lui (o per chiunque altro), Kosmos ha la malsana abitudine di rubare. Tra l'altro ruba mazzette di soldi che puntualmente gli vengono sottratte o che lui stesso cede ad altri. Si nutre di thè e zucchero. E straparla. Non che gli altri abbiano un eloquio anche solo vicino alla normalità (quantomeno per gli standard europei) ma lui veramente è di fuori, pare un predicatore sotto acido e, dopo aver infilato un paio di frasi una di seguito all'altra (frasi che paiono sentenze e tirano in ballo Dio, il creato, la morte, il vento e via discorrendo) la gente che dovrebbe ascoltarlo getta la spugna e si mette a fare altro o a pensare ai fatti propri. L'aspetto positivo di Kosmos, altrimenti un semplice bon savage un po' (e non solo un po') tocco, è
che pare avere dei poteri taumaturgici o qualcosa del genere. La gente comunque lo considera uno sciamano. In realtà dal film non è così chiaro se, a parte il fatto che ad un certo punto vola (ma con lui pure la ragazzina), abbia realmente dei poteri. Potrebbe trattarsi di fatti  più o meno casuali che la gente interpreta come connessi ad una qualche capacità particolare dello stesso Kosmos. A volte, si arrampica sugli alberi. Poi, mentre cerca di guarire un bambino, che in realtà ha solo smesso di parlare perchè si sente in colpa per aver annegato un gattino, il cielo viene attraversato da una scia di fuoco. Il bambino lo interpreta come il segno che aspettava per poter tornare a proferir favella, e tutti e due seguono la scia di fuoco fin nella steppa, dove trovano un qualcosa (un aggeggio, un coso, forse roba militare forse no, boh?) caduto dal cielo. Il bambino alla fine muore. Finelmente parlando, ma comunque muore. Per Kosmos si mette male e in seguito ad altre faccende deve scappare dal villaggio, inseguito dalla gente e dall'esercito, e si ritrova più o meno dove era partito, in mezzo al bianco più assoluto, da solo, fuggendo più che altro dalla sua follia. Kosmos è una sorta di Rasputin mezzo scimunito che, immagino, voglia simboleggiare qualcosa: la forza vitale e selvaggia, l'inconsapevolezza della purezza, il non senso della vita... vai a sapere, ma onestamente non è un personaggio poi così indimenticabile. Anzi, terminato di vedere il film, si fa tutto il possibile per rimuoverlo dalla propria memoria. Ma il film, per fortuna, non è solo Kosmos. Non è solo la sua trama, che è come se non ci fosse o, essendoci, rimanesse volutamente incomprensibile, di modo che lo spettatore possa provare l'esperienza inebriante di sentirsi un perfetto imbecille. Per fortuna c'è la fotografia, che è straordinaria, ci sono i posti (il villaggio microcosmo al cui interno vigono regole che in un orizzonte più ampio neppure lo spettatore più malleabile potrebbe accettare come verosimili), le immagini ed una regia di tutto rispetto, a tratti veramente notevole. Diciamo che, lo stesso film, girato a Quartoggiaro, dopo cinque minuti uno si alza e se ne va.
  Rimane il rimpianto che, qualora il regista avesse optato per dei dialoghi anche solo un poco meno deliranti e magari avesse dato un impianto appena più razionale alla storia, sarebbe potuto essere un capolavoro.



lunedì 12 dicembre 2011

Balada triste de trompeta (Ballata dell'amore e dell'odio), di Alex de la Iglesia

 In Spagna è uscito alla fine del 2010, da noi è stato annunciato diverse volte e chissà se davvero si decideranno a mandarlo nei cinema a carnevale 2011. Il titolo si ispira ad una ballata cantata da Rafael, cantante spagnolo: Balada de la trompeta. Ed è l'ennesima geniale follia del regista spagnolo Alex de la Iglesia, vincitore del Leone d'argento a Venezia come miglior regia. Come ogni opera di genio è imperfetta, imperfetta perchè strabordante, barocca, eccessiva, ma è cinema allo stato puro. Fotografia, regia ed interpretazioni che s'incastrano alla perfezione e sono, esse stesse, perfette. Certamente un film culto. Il film comincia con l'interruzione di uno spettacolo di un circo da parte delle truppe Repubblicane che reclutano a forza ogni adulto presente, uno dei quali è il Pagliaccio Allegro, quello che fa ridere i bambini. Segue scena delirante in cui il Pagliaccio corre menando fendenti con una spada e facendo a pezzi i franchisti che, però, per sua sfortuna, vincono e lo prendono prigioniero. Il Pagliaccio lascia suo figlio Javier ad arrabattarsi solo nella vita di tutti i giorni, a vivere un dolore dietro l'altro, primo tra tutti l'esistenza priva di libertà sotto una dittatura, e privo di padre. Il figlio non potrà così diventare il Pagliaccio allegro, come suo padre, perchè si porta dentro un fardello troppo pesante di sofferenze, ma diventerà il Pagliaccio Triste, il contraltare del ruolo del padre. Divenuto adulto riuscirà ad entrare in un circo scalcinato a coronare il suo sogno, ma qui si scontrerà col Pagliaccio Allegro, Sergio, uno psicopatico dispotico fidanzato di Natalia, la trapezista dolce e sottomessa, incapace di ribellarsi alla violenza cieca del compagno che, nonostante tutto (forse) ama, o crede di amare. Da qui in avanti si sviluppa una trama melodrammatica e barocca eccessiva, a tratti violenta, che gioca tutto sulla contrapposizione bene-male ed amore-odio dove, però, gli estremi finiscono inevitabilmente per confondersi e divenire pericolosamente simili. I due pagliacci si contederanno la bella Natalia come una preda, ciechi di volontà di possesso l'uno e di amore l'altro. po Una selvaggia cavalcata un po' pulp lungo la storia recente della Spagna (assistiamo in diretta all'attentato spettacolare a Carrero Blanco, vedi film Ogro) dove Natalia è la Spagna e Sergio e Javier sono le forze che se la contendono, senza esclusione di colpi, senza valutare le conseguenze delle loro azioni.



E' un film sull'amore e sulla follia ma è pure, e anzi, soprattutto, un film sulla guerra civile e sulla follia e sull'amore che questa sottende. Il circo scalcinato è la società spagnola, un po' imbambolata, un po' sognatrice e un po' eroica nella propria stoica coerenza, ma comunque incapace di mettere fine alla folle disputa.




Ci sarà chi lo adorereà e chi lo odierà, questo film, proprio per le sue caratteristiche intrinseche, ma rimane un enorme atto di amore verso la Spagna e la sua storia recente. Per quanto incredibile possa sembrare, la stessa storia avrebbe potuto portarla al cinema Almodovar, con modi diversi, ma credo sempre con risultati eccellenti (in fondo è un drammone melodrammatico un po' folle). E' sintomatico come gli autori spagnoli si confrontino spesso con la storia franchista e col periodo della guerra civile, e come spesso la facciano toccando corde inaspettate (ad es.: La spina del diavolo, Il labirinto del fauno), e con risultati non di rado ottimi. Una capacità di rischiare che il cinema nostrano pare aver ormai perso.
   La canzone portante della colonna sonora è Corazòn contento, di Marisol, che si fonde alla perfezione con una delle scene che è già una scena simbolo del film.




N.B.: non male la scena in cui Javier, Pagliaccio Triste ormai folle, morde la mano al generalissimo Franco!

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  • Ballata dell'odio e dell'amore INFORMAZIONI

  • TITOLO: Ballata dell'odio e dell'amore
  • TITOLO ORIGINALE: Balada triste de trompeta
  • GENERE: Commedia, Guerra, Dramma
  • ANNO DI DISTRIBUZIONE:

Carlos Areces ...
Javier
Antonio de la Torre ...
Sergio
Carolina Bang ...
Natalia

Manuel Tallafé ...
Ramiro

martedì 6 dicembre 2011

Madonne che piangono (madonna come piangono!)


Certa gente, diciamocelo, sarebbe meglio non vederla piangere, non per altro, ma perchè in fondo a noi non ne viene in tasca niente e a loro, a questa cosiddetta certa gente, neppure. Ce ne stiamo spaparanzati nella Galleria Colonna ad aspettare di sapere di che morte morirà il popolo italiano di qui a poco e quindi, in un certo senso, anche noi, e tutto ciò che possiamo aspettarci é qualche domanda insulsa da parte dei giornalisti presenti. Come volevasi dimostrare, ne giungono a vagonate, di domanda idiote. Fin qui nulla di strano, tutto normale. Sono tranquillo perchè in fondo conosco bene l'acquario in cui mi sto muovendo e i pesci che vi bazzicano. Un paio dei presenti sono chiaramente sotto effetto di sostanze psicoattive, e almeno sei o sette sono impegnati a sbirciare la biancheria intima delle colleghe, anche di quelle oggettivamente inguardabili. Tra questi, il sottoscritto. Non è che ci sia di meglio da fare. I restanti continuano a guardarsi attorno smarriti, con la stessa espressione ebete e preoccupata stampata in volto che hanno messo su dal 16 Novembre, vale a dire da quando si sono ritrovati senza più sapere a chi portare l'osso. Caduto il governo dell'uomo di Arcore, già tessera 1816 della loggia massonica P2 (da qui in avanti indicato semplicemente con la sigla T1816), schiere sterminate di imbrattacarte e occupavideoatradimento si sono trovate senza più un punto di riferimento. Traduzione: e adesso? Chi sarà il nuovo padrone? Ovviamente a nessuno di questi geni è passato per la testa anche solo in un lampo repentino di lucidità che, forse, questa é l'occasione propizia per sciogliere il guinzaglio e correre liberi per i campi infiniti della " libera informazione di un grande paese democratico ". La libertà, giura chi ci si è trovato di fronte, fa paura. Ti tremano le ginocchia, cominci a balbettare e a sudare (si suda in questi casi un po' freddo e un po' caldo, in sequenza). Comunque, a parte un paio di giornaliste già conosciute ed apprezzate per l'aspetto estetico della loro professionalità, per il resto non c'é molto da guardare. Posso assicurarlo. Sempre meglio però che alzare lo sguardo e piantarlo di fronte. Dietro un catafalco terribile ed oscuro, di una pesantezza insostenibile, la linea di attaccanti formata da Mario Monti (da qui in avanti indicato, per semplicità, come MM) se ne sta fissa e pronta a massacrare il paese. Penso, non è un gran problema, questo è un paese che è abituato a farsi massacrare. Dirò di più, pare esserci portato. Negli ultimi ultimi vent'anni, questo paese di ritardati, massoni, chierici, piduisti, mafiosi e paramafiosi, generali golpisti e presentatori televisivi è parso addirittura provare un sinistro godimento del trattamento degradante cui è stato sistematicamente e sadicamente sottoposto. Mentre seguo svogliato la scena mi viene da pensare a Luana Englaro, a quelle immagini selvagge di gente che brandiva bottigliette d'acqua sotto la finestra dove la poveretta stava finalmente ponendo fine alle sue sofferenze. Sul cellulare mi arriva la notizia che è morto Socrates, il tacco di Dio, o qualcosa del genere se ben ricordo, una specie di intellettuale di sinistra prestato al calcio ed alla cerveza. In quel momento, non so perchè, non chiedetemelo, ho la certezza che rincarerà tutto, che sopraggiungeranno nuovi balzelli, per qualche istante mi balenano davanti agli occhi le immagini di quanti da qui in avanti si getteranno dalla finestra di casa, di quanti si appenderanno al lampadario del salotto, di tutti quelli che soffocheranno moglie e figli per poi spararsi un colpo in bocca, di tutti quelli che si impegneranno in qualche gesto inconsulto e definitivo perchè incapaci di rincorrere ancora la speranza, e ho la certezza dicevo, la certezza assoluta, che la Chiesa non verrà toccata, che i grandi patrimoni non verranno toccati se non marginalmente ed in maniera del tutto superifciale ed inadeguata. Chi finirà in disgrazia e avrà il polso sufficentemente fermo per non andare ad ingrossare le fila dei suicidi, farà la fila alla Caritas, chinerà il capo, e ringrazierà pure Santa Madre Chiesa per il piatto di minestra calda. Non so, ma mi pare di intravvedere una forma di conflitto di interessi. La Chiesa non versa il suo obolo allo Stato (date a Dio quel che è di Dio e a Dio quel che è di Cesare) e come per miracolo si ritrova una legione di fedeli cenciosi da tenere per i coglioni con la balla della carità cristiana. A questo punto incappare nell'immagine del ministro Fornero che piange perchè - immagino - prova vergogna a dover annuciare ai soliti quattro gonzi che saranno loro, come al solito, a prenderla in quel posto (culo), diventa una conseguenza naturale e quasi liberatoria. Voglio dire, solo un mese fa non sarei stato capace di immaginare l'esistenza di gente al potere in questo "paese che sembra una scarpa" capace di provare vergogna. E in effetti avrei sbagliato. Hanno distrutto lo statuto dei lavoratori, si sono fatti regalare case a loro insaputa, hanno immaginato chilometrici tunnel percorsi a velocità folle da neutrini non meglio precisati, hanno scambiato una minorenne marocchina per la nipote del primo ministro egiziano, hanno insultato i precari, hanno ruttato e mostrato il dito medio alle telecamere, hanno inciuciato con P3, P4, con Lavitola, si sono fatti portare ragazze da Tarantini, hanno baciato mani a dittatori, hanno fatto il segno delle corna in foto ufficiali, hanno annunciato di fondare un partito a sostegno della vagina, hanno fatto rientrare soldi portati illecitamente fuori dal paese con tassi che nemmeno Mediaworld sotto Natale e un sacco di altre delicatezze che ora sul momento non mi sovvengono, e sempre senza provare il minimo senso di vergogna. Nemmeno un accenno di rossore sulle guance. Allora, ho pensato che la cosa migliore sarebbe stata tornare a dare voti alle curve del culo delle colleghe giornaliste che stavano sostenendo una sforzo sovrumano per non collassare dal sonno. I voti, tra l'altro, si sà, sono il sale della democrazia.    

lunedì 11 luglio 2011

Addio a Facundo Cabral.



Chi era Facundo Cabral?




Facundo Cabral assassinato per i suoi ideali?











Mi abuela decia:

Habría que acabar con los uniformes que le dan la autoridad a cualquiera!

Que es un general desnudo?

Y tenía razón ! Y tenía derecho a hablar de esto, porque estuvo casada con un coronel que era realmente un hombre valiente, solo le tenia miedo a algo…..a los Pendejos.

Un día le pregunté por qué y me respondió :

Porque son muchos y no hay forma de cubrir semejante frente.
Y por temprano que te levantes a donde quiera que tu vayas ,ya está lleno de pendejos ,
y son peligrosos porque al ser mayoría eligen hasta al Presidente....!!!!

Los hay de toda categoría por ejemplo esta :

El pendejo informático:
que es un pendejo computado.

El pendejo burócrata :
que es oficialmente pendejo

El pendejo optimista:
que cree que no es pendejo

El pendejo pesimista:
que cree que es el único pendejo

El pendejo esférico :
que es pendejo por todos lados

El pendejo fosforecente :
porque de noche se ve ,que por alla viene un pendejo

El pendejo de referencia,
Alberto, donde estas .
aahhhh ya te vi ,al lado del pendejo de la chaqueta gris

El pendejo conciente :
por que el sabe que es pendejo

El de sangre azul ,
porque es hijo y nieto de pendejos

Y el mas peligroso de todos :
El pendejo demagogo ,
que cree que el pueblo es pendejo …

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  Mia nonna diceva: bisognerebbe farla finita con le uniformi che danno autorità a chicchessia!

  Cos'è un generale nudo?

  E aveva ragione! E aveva diritto di parlare al riguardo, perchè fu sposata con un colonnello che era un uomo davvero valoroso, solo aveva paura di qualcosa... dei Coglioni.

  Un giorno gli chiesi perchè, e mi rispose:
  Perchè sono molti, e non c'è modo di combattere un simile fronte. E per presto che ti alzi, dovunque tu vada, già è pieno di coglioni, e sono pericolosi perchè essendo la maggioranza sono loro che eleggono addirittura il presidente!
  Ce ne sono di tutte le categorie, per esempio:

  Il Coglione informatico: che è un coglione calcolatore.

  Il Coglione burocrate: che è ufficialmente un coglione.

  Il Coglione ottimista: che crede di non essere coglione.

  Il Coglione pessimista: che crede di essere l'unico coglione.

  Il Coglione sferico: che è coglione da tutti i lati.

  Il Coglione fosforescente: perchè si vede di notte, ed è proprio un coglione.

  Il Coglione di riferimento: Alberto dove sei? Ahh, ti ho visto, accanto al coglione con la giacchetta grigia.

  Il Coglione cosciente: perchè sà di essere coglione.

  E quello di sangue blu: perchè è figlio e nipote di coglioni.

  E il più pericoloso di tutti: il Coglione populista, che crede che il popolo sia coglione...

lunedì 30 maggio 2011

Mario Vargas LLosa: le cartografie del potere



Il premio nobel per la letteratura assegnato nel 2010 a Mario Vargas Llosa ha la seguente motivazione: per la propria cartografia delle strutture del potere e per la sua immagine della resistenza, della rivolta e della sconfitta dell'individuo. Il motivo dunque per cui è stato assegnato a Vargas LLosa il più importante riconoscimento letterario al mondo è legato non tanto al mondo che lo scrittore ha saputo creare, o ricreare, nella sua opera o al suo interesse antropologico rispetto alle culture indigene che ha indagato, come ci si potrebbe aspettare, bensì al potere. Come prima cosa ci si dovrebbe domandare dunque che cos’è il potere, e perché il potere necessita di una cartografia. Potere, secondo il dizionario, significa: “possibilità oggettiva, capacità concreta di fare qualcosa”, “esercizio dell'autorità in un determinato campo; in particolare, la direzione e il controllo della vita di un paese, l'esercizio del governo”, “Insieme di persone o organismo che esercita l'autorità di governo”, “potenza, forza, virtù”, “proprietà di una cosa”. Dunque il potere è, sostanzialmente, l’esercizio, anche ufficialmente riconosciuto mediante apposita carica, di fare qualcosa. Ci si può domandare perché proprio per giustificare l’assegnazione di un premio così importante a Mario Vargas Llosa è stato tirato in ballo il potere, piuttosto che, come già si è detto, per il suo stile elevato ma accessibile, per la capacità di ricreare mondi ed epoche differenti, per lo studio e l’attenzione alle popolazioni indigene ed alle loro culture, per la capacità impietosa di ritrarre la politica e la storia del proprio paese e non solo. La produzione di Vargas Llosa potrebbe portarci a pensare che il comitato del Nobel si sia voluto interessare delle faccende del Perù o, un poco più in generale, dell’america latina, ma la determinazione stessa della motivazione ci porta a comprendere che non si tratta di questioni regionali o nazionali, non si tratta neppure della storia e della politica di un continente, ma più in generale del mondo. Il potere si esercita in ogni angolo del mondo e in ogni angolo, più o meno, se ne abusa. Se l’abuso non fosse connaturato all’essenza stessa del potere non ci sarebbe stato bisogno di dedicarvi un Nobel. Il potere, dunque, esiste ovunque, esiste da sempre, e porta da sempre con sé, e in sé, il rischio dell’abuso (abuso di potere, appunto). E’ singolare, ma non credo sia un caso, che proprio Mario Vargas Llosa si sia trovato agli inizi della sua carriera a fare i conti esattamente con la faccia meno presentabile del potere, quando, nel 1963 pubblica il suo secondo libro, La città e i cani. In quell’occasione vennero bruciati i suoi libri perché, si sosteneva, gettavano discredito sull’istituzione militare. Questo avvenimento ha a che vedere tanto con l’opera quanto con la biografia di Vargas Llosa, ed è la chiave di lettura iniziale che porterà il comitato del Nobel a interpretare tutta la sua opera successiva come una “cartografia”, quindi una mappa, di quel potere che rischiò di stroncargli la carriera sul nascere. In seguito, Vargas Llosa, dal 1987 al 1990 si dedica alla politica e arriva vicino a diventare presidente del Perù, ma viene sconfitto al ballottaggio. Questa volta è lui che si avvicina al potere per antonomasia, quello politico, ma ne viene in qualche modo respinto. Forse, oltre alla indubbia volontà di fare il bene del proprio paese c’era in lui (o così possiamo leggere a posteriori) anche il tentativo di domare quell’essere, il potere appunto, che aveva rischiato di schiacciargli la carriera diversi anni prima, forse la volontà di dimostrare che il potere lo si può gestire anche e soprattutto a fin di bene, senza l’idea di farne uno strumento personale autoconservativo. La storia ha deciso diversamente (per fortuna della letteratura). Che si tratti del potere di una nina mala sul suo spasimante, o di quello della società cosiddetta civile su culture indigene, o del potere di togliere la vita, o di quello di un’autorità para e pseudo-religiosa sui suoi adepti, Vargas Llosa li ha messi in scena tutti. Le diverse facce di uno stesso prisma. Poco importa che il taglio sia antropologico, da feuilleton popolare, intimistico, storico o poliziesco: si tratta di modi diversi di indagare lo stesso mistero, modi differenti che gli hanno permesso di raggiungere anche fasce differenti di pubblico che, infatti, con l’andare del tempo si è allargato ed internazionalizzato. Mario Vargas Llosa infatti è, tra gli ultimi vincitori del premio Nobel per la letteratura, indubbiamente quello che più di ogni altro già godeva di consenso popolare e di consacrazione sia di pubblico che di critica a livello internazionale. Forse per questo non era dato tra i favoriti. Le dichiarazioni rilasciate dallo stesso autore durante diverse interviste sono illuminanti sulla sua visione del potere e, forse, possono aiutarci a comprendere la sua maturazione di una visione della vita e della politica che lo ha portato, negli anni, a sostenere posizioni apparentemente differenti (dall’appoggio a Fidel Castro a posizioni apparentemente neoliberiste). Mario Vargas Llosa, durante le succitate interviste, si è trovato a spiegare come il potere sia qualcosa di connaturato all’uomo, e di pericoloso, e che deve trovare dei controbilanciamenti continui per non diventare qualcosa di selvaggio ed ingestibile. Aggiunge che ognuno è sottoposto a questo rischio: anche la persona migliore, in situazioni in cui si trova a gestire un potere senza leggi che lo delimitino, rischia di credersi onnipotente e perdere il controllo. A questo proposito è interessante l’argomento del suo ultimo libro, Il sogno del celta. Roger Casement, il protagonista, viaggia in Africa in giovane età, convinto di trovare in corso d’opera la democratizzazione del Continente nero. Egli è sinceramente convinto della bontà della colonizzazione europea e non sospetta cosa questa nasconda facciata. Quando se ne rende conto, modifica il suo modo di vedere l’Europa e il potere che essa incarna. Dice Vargas Llosa, che le persone che in Africa si comportavano come schiavisti commettendo le atrocità più inenarrabili, nel loro paese (il Belgio ad esempio, colonizzatore del Congo) erano persone civili e stimate che mai si sarebbero sognate di commettere certe azioni riprovevoli. Essi stessi erano divenuti vittime del potere a loro assegnato, perché era un potere che, in Africa, non era arginato da alcuna legge. A quel punto il potere torna ad essere la semplice e brutale capacità di imporre il proprio volere sugli altri, anche con la forza. Queste sue dichiarazioni ritengo siano la sintesi sia della sua opera che della sua biografia. L’uomo Vargas Llosa ha rischiato di essere schiacciato dal potere, ha cercato di comprenderlo, prima con l’appoggio a Fidel Castro e poi con l’avvicinamento a visioni neoliberiste della società, ha tentato di prenderlo per le corna e domarlo con l’avventura delle elezioni, e nel mentre lo ha descritto in ogni sua declinazione, sempre per comprenderne la natura. Il punto finale della sua ricerca è da ritenersi quella che emerge dalle sue stesse parole: il potere riguarda (o può riguardare) tutti, e può tramutarsi in abuso in qualsiasi occasione, all’interno di qualsiasi ideologia o sistema politico per quanto possano sembrare perfette ed integerrime sulla carta. A questo punto la soluzione che ci suggerisce Mario Vargas Llosa è un’altra, e travalica generi, nazioni ed ideologie. Bisogna imbrigliare il potere con la legge e perché questa possa avere un’azione controbilanciante, è necessario che sia realmente uguale per tutti, per chi amministra il potere e per chi da questo potere viene amministrato. La motivazione data dal comitato del premio Nobel diventa così illuminante per comprendere non solo un grande scrittore della letteratura mondiale del novecento, ma anche per sottolineare un messaggio che, se compreso, rischierebbe di cambiare realmente il mondo.

domenica 22 maggio 2011

I Pirati dei Caraibi - Oltre i confini del mare, di Rob Marshall

E' giusto ogni tanto parlare di piccoli film indipendenti, con poca distribuzione, budget risicati all'osso ed attori semisconosciuti. E' il caso di questa piccola gemma che riporta in voga il genere piratesco, l'avventura che solca i sette mari a testa alta, sprezzante di pericoli e leggi, priva di codici d'onore che non siano l'anarchica legge dell'arraffamento compulsivo. I pirati rubano, depredano, uccidono, si ubriacano, torturano, navigano, si buttano in mezzo a risse senza senso, violentano, mentono e tradiscono (tutto in maniera patologico-comulsiva). Dev'essere per questo che riscuotono tanto successo. Questo film mette in scena un periodo storico, quello della pirateria appunto, e dei capitani di ventura, dei corsari, ma soprattutto dà voce ad un genere letterario, ad un territorio che è rimasto nascosto in ognuno di noi, un territorio fanciullo, dove ogni cosa è ancora possibile e dove l'eroe non è tenuto ad essere bello, pulito e con una morale da insegnare a qualcuno. Al più, un pirata può mostrare una filosofia, la sua personale filosofia di vita, che è quella dell'avventura a tutti i costi, del mare che sostiene e permette ad ogni storia di stare a galla (o di affondare), che è quella della sfida a tutti i costi contro ogni ragione, la sfida alla morte prima di ogni altra, la filosofia che pone una bottiglia di rhum al di sopra di tutto, che si aggira in bettole oscene e lerce dove si aggirano donne oscene e lerce, dove si intonano canti osceni e lerci che, però, a volte, sfumano in nenie malinconiche e poetiche. Tutto ciò lo porta in scena perfettamente Rob Marshall, con la foga assolutamente piratesca dell'accumulo (di storie, di personaggi, paesaggi, gag, atmosfere), dell'esagerazione, dell'avventura oltre ogni limite e oltre ogni ragione. Un pirata può desiderare poche cose, ma chiare, e sempre quelle. E per queste cose non dubita un solo istante a sfidare la morte. I tesori, le ricchezze, il rhum, le risse e l'avventura. Il pirata non ride, ghigna. Il pirata non ama, scopa, e casomai gli fosse capitata in vita sua la debolezza di amare se ne vergogna e non lo dice in giro, consapevole che l'unico vero amore, quella eterno, lo può nutrire per la propria nave (e per l'avventura, il rhum, le bettole, e le ricchezze impropriamente guadagnate). Il pirata inoltre crede a qualsiasi sciocchezza gli si racconti, questo perchè di solito è ubriaco e, in secondo battuta ( ma forse anche prima) perchè è una buona scusa per finire in mezzo a qualche avventura sconclusionata. In questo caso la scusa buona è la ricerca della fonte dell'eterna giovinezza. Due stati (Spagna e Inghilterra), tre navi e relativi equipaggi in corsa alla ricerca della fonte. E poi, Barbanera, Jack Sparrow, quello vero e un'impostore, il babbo di Jack Sparrow (Keith Richards), Angelica, un prete innamorato, un nugolo di sirene cannibali, una ciurma zombie, la Perla Nera in bottiglia, e ancora, paesaggi mozzafiato, scorci misteriosi, e la quete contro il tempo, contro gli altri equipaggi per raggiungere la fonte. Essendo pirati, è chiaro che la brama dell'eterna giovinezza è una buona scusa per far bisboccia in eterno, cioè per depredare, violare, bere, torturare, mentire e via discorrendo.Un piccolo film che, col basso budget a disposizione, fa miracoli. Un cast di attori sconosciuti che meritano prima o poi la grande ribalta (Penelope Cruz col doppio mento è l'unico aspetto sconcertante del film). Dicono, ma non vi è la certezza, che questo I Pirati dei Caraibi - Oltre i confini del mare sia solo l'ultimo episodio di una serie di altri tre (3) film con lo stesso protagonista (capitan Jack Sparrow), ma se ciò foss'anche vero credo che quasi nessuno abbia avuto modo di vederli, a causa appunto della scarsa distribuzione (ed è un vero peccato, perchè se la qualità è quella di quest'ultimo vale senza dubbio la pena vederli). Chiunque avesse avuto modo di vederli, anche solo uno di questi tre, è pregato di postare qualche informazione, soprattutto riguardo a dove procurarseli. Grazie.





Pirati dei Caraibi - Oltre i confini del mare

Un film di Rob Marshall. Con Johnny Depp, Ian McShane, Penelope Cruz, Richard Griffiths, Geoffrey Rush.
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Titolo originale Pirates of the Caribbean: On Stranger Tides. Azione, Ratings: Kids+13, durata 141 min. - USA 2011. - Walt Disney uscita mercoledì 18 maggio 2011