I DOTTORI SONO BUONI QUI, E I TOPI ANCHE, E GLI INFERMIERI. NON MI POSSO LAMENTARE.
POTREI ESSERE CHIUSO NEL GUSCIO DI UNA PICCOLA NOCE E SENTIRMI IL RE DELL'UNIVERSO, MA FACCIO BRUTTI SOGNI, E POI SENTO SEMPRE QUELLE MALEDETTE VOCI DAGLI SCARICHI, CHE NON TACCIONO.

domenica 10 ottobre 2010

Cadere dai palazzi


CADERE DAI PALAZZI


Ho questo amico, molti anni fa, che mi dice che mi vuole raccontare una storia. Per farmi capire dice, per rendermi l’idea. Questo mio amico che molti anni fa non era nessuno, solo uno studente, adesso è giornalista.
<< Senti bene >>, incomincia, e mi racconta la storia di un uomo che cade da un palazzo. Quest’uomo non meglio specificato che cade da un palazzo non meglio specificato, mentre cade, sfrecciando da un piano all’altro dritto al marciapiede molti metri sotto di lui, ad ogni piano si ripete: fin qui tutto bene. Dice << Fin qui tutto bene, fin qui tutto bene. >>, se lo ripete come un mantra come se questo reiterare il concetto potesse fungere da esorcismo e salvarlo dallo schianto. Fin qui tutto bene fin qui tutto bene un cazzo, dice il mio amico, prima o poi lo schianto arriva, deve arrivare, ma non è così. Allora l’uomo passa ad un altro livello e usa le parole in modo diverso, dal momento che la ripetizione delle sue preghiere sembra sortire effetto, decide di dare una regola a tutto questo, una regola che è al contempo una speranza, << L’importante, >>, postula l’uomo che cade dal palazzo, << non è la caduta, ma l’atterraggio. >>
Ora, mi fa notare l’amico molti anni fa, a questo punto l’uomo dovrebbe già essere morto da un pezzo, schiantato a terra, la struttura scheletrica in pezzi, gli organi interni collassati, la scatola cranica sfondata, aperta come un frutto maturo e la materia cerebrale sparsa per il marciapiede, come un gomitolo appiccicoso, invece no. L’uomo è sempre a qualche centimetro da terra, sempre pochi, forse addirittura sempre meno, come logica vorrebbe, ma l’impatto non si concretizza mai. Ora, mi fa quest’amico, l’uomo in realtà non è un uomo, è un paese, uno stato, un sistema paese, una nazione, chiamalo come vuoi mi dice, e non ha modo di impedire l’impatto, solo di ritardarlo all’infinito. Ti dice niente? mi chiede.
Alla fine l’uomo si abitua alla sua condizione, e il cadere perpetuo diventa la sola vita che conosce e che ricorda, non sa immaginare altro che il precipitare, l’aria che gli scivola sui lineamenti, il selciato che si avvicina, il vuoto sotto di sé, questo per lui significa vivere. Ti dice niente? Mi chiede il mio amico.

Ora, non so se questo racconto abbia qualcosa a che vedere coi fatti che seguiranno, non ne ho la benché minima idea, ma forse si, penso. O forse no. Io sono la voce narrante, tanto piacere. La storia che segue è, in fondo, un lento precipitare, o forse un precipitare rapidissimo, come quasi sempre si precipita in fondo. Come tutte le storie che si intrecciano nel sistema paese di cui sopra.
Il mio amico appare nella storia, lo si riconosce facilmente, non perché ce l’abbia voluto infilare io a forza per giustificare questa parabola dell’uomo che cade da un palazzo, uomo che poi non è un uomo bensì uno stato, ma perché in effetti ha avuto una parte, seppur marginale, nel dipanarsi della storia che segue. Ne fa parte lui come il resto della realtà, come i palazzi, certi palazzi, come i servizi segreti, come i morti, come i vivi, le televisioni, e via discorrendo. Questo per dire che questo amico è vivo e reale, di una vita che conosce realmente solo lui, e che io sono la voce narrante.