I DOTTORI SONO BUONI QUI, E I TOPI ANCHE, E GLI INFERMIERI. NON MI POSSO LAMENTARE.
POTREI ESSERE CHIUSO NEL GUSCIO DI UNA PICCOLA NOCE E SENTIRMI IL RE DELL'UNIVERSO, MA FACCIO BRUTTI SOGNI, E POI SENTO SEMPRE QUELLE MALEDETTE VOCI DAGLI SCARICHI, CHE NON TACCIONO.

sabato 26 marzo 2011

La stanza accanto, di Roberto Bolano (da El secreto del mal)

  In una certa occasione, se non ricordo male, mi trovavo in una riunione di matti. La maggior parte soffriva di allucinazioni uditive. Un tipo mi si avvicinò e mi chiese se poteva scambiare qualche parola in privato con me. Andammo nell'altra stanza. Il tipo disse che le medicine lo stavano facendo uscire di senno, ogni giorno mi sento più nervoso, disse, e a volte mi passano per la testa strane idee. Io gli dissi che poteva capitare. Il tipo disse che che era la prima volta che gli capitava. Poi si sollevò il maglione e si grattò l'ombelico. Dentro i pantaloni aveva una pistola. Cos'è?, gli chiesi. Il mio fottuto ombelico, disse il tipo, mi prude, non posso far altro che grattarmelo tutto il giorno. La carne attorno all'ombelico, in effetti, era arrossata. Gli dissi che non mi riferivo al suo ombelico, ma a quello che aveva poco più in basso. E' una pistola?, dissi. Si, è una pistola, disse il tipo, e la impugnò e la puntò verso l'unica finestra della stanza. Valutai se domandargli se si trattava di un giocattolo, ma non lo feci. A me parve una pistola vera. Gli dissi che me la lasciasse vedere. Le armi non si prestano, disse il tipo. Come le macchine e le donne. Se rubi una macchina, puoi prestarla. Io non lo consiglio, però puoi farlo. Se esci con una puttana, anche. Io non lo farei, non presterei mai nessuna donna, però per potere, si può. Le armi no, in nessuna circostanza. E se sono rubate o sono giocattoli?, gli dissi. Neppure, disse il tipo. Dal momento in cui l'arma reca impresse le tue impronte digitali, ormai non la puoi prestare. Lo capisci? Più o meno, dissi io. Stringi un patto con lei, disse il tipo. Cioè devi portarla con te tutta la vita, dissi io. Esattamente, disse il tipo, te la sei sposata e non c'è altro da aggiungere. L'hai messa incinta con le tue fottute impronte e non c'è altro da aggiungere. Responsabilità, disse il tipo. Poi alzò il braccio e me la puntò direttamente alla testa. Pensai, non so se allora o dopo, o forse ricordai di averlo già pensato prima, in modo febbrile e inutile, d'altronde, alla belle inertie di Moreau, la bella inerzia, il processo di composizione secondo il quale Moreau era capace di congelare, di trattenere, di fissare qualsiasi scena, per tumultuosa che fosse, sulle sue tele. Poi chiusi gli occhi. Sentì che mi chiedeva perchè chiudessi gli occhi. La calma di Moreau, la chiamano alcuni critici. La paura di Moreau, la chiamano altri critici meno inclini alla sua opera. Il terrore ornato di gioielli. Ricordai i suoi quadri trasparenti, i suoi quadri "interminabili", i suoi uomini giganteschi e loschi e le sue donne, piccole a confronto con le figure maschili, indicibilmente belle. J. K. Huysmans scrisse riguardo i suoi quadri: << Le scene più diverse suscitano sempre la stessa impressione: di un onanismo spirituale che frequentemente si riproduce in un corpo pudico. >> Onanismo spirituale? Soltanto onanismo. Tutti i giganti di Moreau, tutte le sue donne, tutti i gioielli e tutto l'equilibrio geometrico (o il bagliore geometrico) cadono, in piedi e armati, nel territorio del corpo pudico o della responsabilità. Una notte, quando avevo venti anni ed ero un giovane sensibile, in una pensione in Guatemala ascoltai una conversazione che sostenavano due uomini nella stanza accanto. Uno aveva la voce profonda, e l'altro diciamo che l'aveva come di acquavite. All'inizio, ovviamente, non prestai attenzione alle loro parole. Entrambi erano centroamericani, anche se dall'inflessione e dal tono delle loro voci non dovevano essere dello stesso paese. Il tipo con la voce come di acquavite cominciò parlando di una donna. Lodò la sua bellezza, il suo modo di vestire, il suo sapersi muovere, la sua abilità in cucina. Il tipo dalla voce roca assentiva a tutto. Lo immaginai steso sul letto, fumando, mentre l'altro rimaneva seduto sul suo, al fondo, o magari a metà, già senza scarpe, ma senza ancora essersi tolto la camicia e i pantaloni. Non davano l'impressione di essere amici, forse dividevano quella stanza perchè non potevano fare altrimenti o perchè così facendo gli risultava più economica. Probabilmente avevano cenato assieme e avevano bevuto assieme e in quello consisteva tutta la loro amicizia. Cosa che in quegli anni in Centroamerica risultava più che sufficiente. In più di un'occasione mi addormentai ascoltandoli. Perchè non dormii in una sola tirata fino alla mattina? Non lo so. Forse perchè ero troppo nervoso. Forse le voci dell'altra stanza, in certi momenti, si alzavano di tono, e questo era sufficiente perchè tornassi allo stato di veglia. Il tipo dalla voce rauca, in certi momenti, rise. Il tipo dalla voce come di acquavite disse, o ripetè, che aveva ucciso sua moglie. Supposi che fosse la stessa donna che aveva elogiato prima che mi addormentassi. L'ho uccisa, disse, e poi rimase in attesa della risposta di quell'altro. Mi sono tolto un peso di dosso. Ho fatto giustizia. Di me non ride nessuno. Il tipo dalla voce rauca si girò nel letto e non disse nulla. Lo immaginai di pelle scura, una via di mezzo tra un indio e un negro, più negro che indio, forse un panamense che viaggiava a Panama o fino al nord, fino in Messico e alla frontiera con gli Stati Uniti. Dopo un lungo silenzio durante il quale solo udii rumori strani, chiese all'altro se parlava seriamente, se l'aveva ammazzata davvero. Quello con la voce come di acquavite non disse niente o forse si limitò ad affermare con la testa. Poi il negro gli chiese se voleva fumare. Non è una cattiva idea, disse quello dalla voce come di acquavite, un ultimo tiro e poi dormiamo. Non lo udii più. E' possibile che quello dalla voce come di acquavite si fosse alzato e avesse spento la luce, mentre il negro lo osservava dal letto. Immaginai un tavolino da notte con un posacenere.Una stanza oscura, come la mia, con una finestra piccola che dava su una strada non asfaltata. Quello dalla voce come di acquavite sicuramente era magro e bianco. Un tipo nervoso. L'altro, nero e grande, pesante, di quelli che perdono la calma solo in rare occasioni. Per diverso tempo rimasi sveglio. Quando credetti che si fossero addormentati mi alzai, cercando di non fare rumore, e accesi la luce. Mi misi a fumare e poi a leggere. L'alba non arrivava mai. Quando alla fine mi vinse un'altra volta il sonno e spensi la luce e mi stesi sul letto, ricominciai a sentire rumore nella stanza accanto. Una voce di donna, come se parlasse con le labbra incollate alla parete, disse buona notte. In quel momento contemplai la mia stanza, che aveva tre letti, come la stanza accanto, e fui invaso dalla paura e dalla voglia di lanciare un grido, ma lo ricacciai indietro perchè sapevo che dovevo farlo.




  traduzione dvd illevir

venerdì 18 marzo 2011

Burke & Hare, ladri di cadaveri

La storia è vera, ci ricorda un'avvertenza nei titoli di testa, almeno quelle parti che non sono false. E in effetti, la storia è quella reale occorsa alla fine dell'800 (1827-1828, il periodo dei delitti) ad Edimburgo, quando i cadaveri erano estremamente ricercati al mercato nero come mezzi indispensabili per far progredire la scienza medica. I personaggi storici sono numerosi, dai due protagonisti Hare e Burke (seppur con biografie un po' diverse) Samuel Coleridge e William Wordswoth, fino al professor Knox, l'utilizzatore finale dei cadaveri, che all'epoca, pur avendo capito cosa stava capitando, chiuse un occhio per il buon servigio che così facendo apportava alla scienza, ed alla sua reputazione. Anche la moglie di Hare è una figura storica, anche lei complice dei traffici del marito e dell'amico del marito. Da quel che se ne sa, i veri Burke e Hare (più signora) erano nettamente più sgradevoli della loro odierna versione cinematografica, avidi, senza scrupoli, e con poco senso dell'umorismo (ma su quest'ultimo aspetto non ci sono fonti certe nè verosimili). All'epoca, la scienza medica poteva usare, per i suoi scopi, solo morti enne enne, vale a dire di sconosciuti, o di gente che era stata giustiziata. Per quanto c'è da immaginare che non fossero poi pochi, evidentemente, come si suol dire, i cadaveri non bastavano mai. Forse sarebbe stato necessario giustiziarne di più. Tant'è. La storia è conosciuta, molto nel Regno Unito, e in parte anche qui da noi (io la lessi su un libro cartonato rosso Mondadori - credo - sui misteri e delitti famosi, ma ero giovane e non so se faccia curriculum), e se non la si conosce si fa presto ad immaginarla: i due (che non se la passavano per nulla bene a finanze) incappano casualmente in un cadavere e scoprono che ci si può fare dei soldi (infatti lo vendono al dott. Knox, l'utilizzatore finale), subito dopo intuiscono che i cadaveri - malauguratamente - non piovono dal cielo, e un attimo dopo, come viene detto nel film, decidono di mettersi in affari. Fare affari coi cadaveri, avendo già il compratore, vuol dire in buona sostanza procurarsi la materia prima. Se la materia prima scarseggia e il mercato pressa con le richieste (probabilmente, secondo le leggi dello stesso, anche alzando il valore della merce), allora ci si fabbrica il bene di scambio. Vale a dire, il morto lo si fabbrica in casa. Burke e Hare, con benedizione ed aiuto della gentile consorte di Hare, diventano così degli assassini, e alla fine anche piuttosto benestanti. Non credo di essere un visionario se mi permetto di vedere in questo film un satira sul mercato e sulle sue leggi, leggi non morali ma empiriche, e se credo di scorgere una critica assai poco velata alla avidità umana, ed all'ipocrisia delle nostre società (passate, come nel caso in questione, presenti e future). Il boia, una sorta di narratore, un personaggio tutto sommato simpatico, si trova a condannare i due protagonisti perchè facevano soldi sui morti proprio nel momento in cui intasca un sacchetto di monete e lascia che venga portato via il cadavere di Burke. Forse in questo punto Landis ci strizza l'occhio e ci ricorda che lui non è diverso dai suoi personaggi, anche lui sta facendo i soldi coi morti, proprio quei morti che stiamo vedendo noi sullo schermo. Poi, in tutto questo bailamme di vittime e carnefici, c'è la storia d'amore tra Burke e un'attricetta graziosa (ed ex prostituta. "C'è differenza?", si chiede un personaggio) con mire shakesperiane, c'è l'invenzione della fotografia, ci sono Coleridge e Wordswoth cui viene impedito di entrare in un locale alla moda, ci sono i dottori e il loro ego, c'è la torma cenciante e malaticcia che è la popolazione dell'epoca, ci sono le impiccagioni alle quali il popolo assiste come noi assistiamo ai film (ma per loro era gratis). Tutti giudicano e tutti (o quasi) si vendono (e chi non si vende, vorrebbe poterlo fare). Una sceneggiatura non all'altezza dei precendenti storici di Landis abbassa di qualche punto il giudizio, ci sono gag che portano a sorridere, a volte, altre volte neppure a quello, ma il film rimane un buon film. Una magnifica scenografia che ci riporta nel bel mezzo della vita squallida e maleodorante dell'Edimburgo dell'epoca, una storia che nel suo complesso è ben strutturata, solida, con qualche guizzo ma non troppi. Qualche guizzo in più non avrebbe guastato, o magari un po' più di verve in generale. Per essere un film girato da un americano è un film piuttosto europeo, esattamente come, all'opposto, Sherlock Holmes di Guy Ritchie (brittanico) era un film estremamente americano. Buoni gli intepreti. Forse in certi casi anche molto buoni. E in più un cameo di Christopher Lee, nei panni di un morituro (che poi in effetti, nel breve volgere di un attimo o poco più, muore). Non vorremmo che più che un camero fosse una sorta di coccodrillo e, se anche così fosse, il film ce lo spiega: i soldi si fanno coi morti.

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Ladri di cadaveri - Burke & Hare

 

Un film di John Landis. Con Simon Pegg, Andy Serkis, Isla Fisher, Jessica Hynes, Tom Wilkinson. Titolo originale Burke and Hare. Commedia, durata 91 min. - Gran Bretagna 2010.

giovedì 10 marzo 2011

Poesia, di Pacciani P.

Il mondo è pien di spasimi e lamenti
l'eco lo sentiremo da lontano
si partirà per luoghi sconosciuti
si va in pensione senza contributi.

Pacciani Pietro

domenica 6 marzo 2011

Il discorso del re

  Se diamo retta ai brevi riassunti che dovrebbero invogliare l'entuale pubblico ad armarsi di buona voglia, lasciare le proprie poltrone casalinghe ed avventurarsi in cerca di una sala cinematografica, questo film parlerebbe dell'angoscioso problema di re Giorgio VI (Bertie per gli amici, pochi), cioè la balbuzie, e dei suoi sforzi per vincerla in vista del discorso alla nazione più importante dell'epoca, e cioè quello che annunncia l'entrata in guerra del Regno Unito contro la Germania Nazista. In realtà, se così fosse, non avrebbe senso darsi tanta pena per cercare la sala più vicina, trovare parcheggio, spendere i propri soldi e via discorrendo. Per fortuna, c'è molto di più. E' un film storico, nel senso che ciò che vi è narrato fa parte della storia, vi è in essa inscritto, ma in maniera intima, anche drammatica per certi versi, e per altri buffa. E' una storia famigliare e casalinga che sostiene ed è sostenuta dalla grande storia nella quale si sta immettendo. Parliamo delle paure di un essere umano a ricoprire un ruolo, ad essere all'altezza delle attese del suo popolo, ad essere all'altezza del giudizio che la storia vorrà riversargli addosso.Un uomo, che per quanto reale purosangue, intriso fin nel midollo di codici comportamentali elitari (e più), rimane solo un uomo, meno sicuro del fratello, meno carismatico del padre, e con l'handicap, terribile per l'epoca, della balbuzie. L'uomo, il re, deve combattere contro sè stesso per giungere al momento culminante: confrontarsi con la propria voce. Sarà di quella che si nutrirà il popolo inglese. Una voce. Una voce che dovrà rivaleggiare con quelle forti e trascinatrici di Hitler e Mussolini. Una voce che non riesce a finire una sola parola senza impappinarsi almeno tre o quattro volte. Bertie troverà sulla sua strada Lionel Logue (Geoffrey Rush, fenomenale), un logopedista dai metodi personali (e più o meno ortodossi) ma efficaci, che scaverà in lui, nelle sue corde vocali e, soprattutto, nella sua vita rigida e intrisa di paure fino al midollo. Il film è questo: la crescita di un uomo e delle sue paure, di un uomo con le sue paure, di un uomo che riesce ad affrontare responsabilità enormi nonostante le sue paure e che, poco alla volta, assume una figura, un portamento (vedere le riprese da dietro le spalle, in uniforme, prima e dopo il discorso radiofonico) e una grandezza che alla fine sarà la storia stessa a riconoscergli. Un gran bel film, assolutamente consigliato e da consigliare, al quale i trailer che passano in tv non rendono giustizia. Interpretazioni eccellenti, non solo di Colin Firth (Oscar come migliore attore), ma anche di Geoffrey Rush, Elena Bonham Carter e Guy Pearce su tutti. L'unico neo è l'interpretazione di Timothy Spall, colui che dovrebbe essere Winston Churchill (!), e che invece si limita a piegare gli angoli della bocca verso il basso e a camminare come se fosse un cow boy appena sceso da cavallo. Per il resto un ottimo film.

USCITA CINEMA: 28/01/2011
REGIA: Tom Hooper
SCENEGGIATURA: David Seidler
ATTORI: Colin Firth, Guy Pearce, Helena Bonham Carter, Timothy Spall, Geoffrey Rush, Jennifer Ehle, Derek Jacobi, James Currie, Tim Downie, Michael Gambon, Anthony Andrews, Eve Best, Claire Bloom