Il premio nobel per la letteratura assegnato nel 2010 a Mario Vargas Llosa ha la seguente motivazione: per la propria cartografia delle strutture del potere e per la sua immagine della resistenza, della rivolta e della sconfitta dell'individuo. Il motivo dunque per cui è stato assegnato a Vargas LLosa il più importante riconoscimento letterario al mondo è legato non tanto al mondo che lo scrittore ha saputo creare, o ricreare, nella sua opera o al suo interesse antropologico rispetto alle culture indigene che ha indagato, come ci si potrebbe aspettare, bensì al potere. Come prima cosa ci si dovrebbe domandare dunque che cos’è il potere, e perché il potere necessita di una cartografia. Potere, secondo il dizionario, significa: “possibilità oggettiva, capacità concreta di fare qualcosa”, “esercizio dell'autorità in un determinato campo; in particolare, la direzione e il controllo della vita di un paese, l'esercizio del governo”, “Insieme di persone o organismo che esercita l'autorità di governo”, “potenza, forza, virtù”, “proprietà di una cosa”. Dunque il potere è, sostanzialmente, l’esercizio, anche ufficialmente riconosciuto mediante apposita carica, di fare qualcosa. Ci si può domandare perché proprio per giustificare l’assegnazione di un premio così importante a Mario Vargas Llosa è stato tirato in ballo il potere, piuttosto che, come già si è detto, per il suo stile elevato ma accessibile, per la capacità di ricreare mondi ed epoche differenti, per lo studio e l’attenzione alle popolazioni indigene ed alle loro culture, per la capacità impietosa di ritrarre la politica e la storia del proprio paese e non solo. La produzione di Vargas Llosa potrebbe portarci a pensare che il comitato del Nobel si sia voluto interessare delle faccende del Perù o, un poco più in generale, dell’america latina, ma la determinazione stessa della motivazione ci porta a comprendere che non si tratta di questioni regionali o nazionali, non si tratta neppure della storia e della politica di un continente, ma più in generale del mondo. Il potere si esercita in ogni angolo del mondo e in ogni angolo, più o meno, se ne abusa. Se l’abuso non fosse connaturato all’essenza stessa del potere non ci sarebbe stato bisogno di dedicarvi un Nobel. Il potere, dunque, esiste ovunque, esiste da sempre, e porta da sempre con sé, e in sé, il rischio dell’abuso (abuso di potere, appunto). E’ singolare, ma non credo sia un caso, che proprio Mario Vargas Llosa si sia trovato agli inizi della sua carriera a fare i conti esattamente con la faccia meno presentabile del potere, quando, nel 1963 pubblica il suo secondo libro, La città e i cani. In quell’occasione vennero bruciati i suoi libri perché, si sosteneva, gettavano discredito sull’istituzione militare. Questo avvenimento ha a che vedere tanto con l’opera quanto con la biografia di Vargas Llosa, ed è la chiave di lettura iniziale che porterà il comitato del Nobel a interpretare tutta la sua opera successiva come una “cartografia”, quindi una mappa, di quel potere che rischiò di stroncargli la carriera sul nascere. In seguito, Vargas Llosa, dal 1987 al 1990 si dedica alla politica e arriva vicino a diventare presidente del Perù, ma viene sconfitto al ballottaggio. Questa volta è lui che si avvicina al potere per antonomasia, quello politico, ma ne viene in qualche modo respinto. Forse, oltre alla indubbia volontà di fare il bene del proprio paese c’era in lui (o così possiamo leggere a posteriori) anche il tentativo di domare quell’essere, il potere appunto, che aveva rischiato di schiacciargli la carriera diversi anni prima, forse la volontà di dimostrare che il potere lo si può gestire anche e soprattutto a fin di bene, senza l’idea di farne uno strumento personale autoconservativo. La storia ha deciso diversamente (per fortuna della letteratura). Che si tratti del potere di una nina mala sul suo spasimante, o di quello della società cosiddetta civile su culture indigene, o del potere di togliere la vita, o di quello di un’autorità para e pseudo-religiosa sui suoi adepti, Vargas Llosa li ha messi in scena tutti. Le diverse facce di uno stesso prisma. Poco importa che il taglio sia antropologico, da feuilleton popolare, intimistico, storico o poliziesco: si tratta di modi diversi di indagare lo stesso mistero, modi differenti che gli hanno permesso di raggiungere anche fasce differenti di pubblico che, infatti, con l’andare del tempo si è allargato ed internazionalizzato. Mario Vargas Llosa infatti è, tra gli ultimi vincitori del premio Nobel per la letteratura, indubbiamente quello che più di ogni altro già godeva di consenso popolare e di consacrazione sia di pubblico che di critica a livello internazionale. Forse per questo non era dato tra i favoriti. Le dichiarazioni rilasciate dallo stesso autore durante diverse interviste sono illuminanti sulla sua visione del potere e, forse, possono aiutarci a comprendere la sua maturazione di una visione della vita e della politica che lo ha portato, negli anni, a sostenere posizioni apparentemente differenti (dall’appoggio a Fidel Castro a posizioni apparentemente neoliberiste). Mario Vargas Llosa, durante le succitate interviste, si è trovato a spiegare come il potere sia qualcosa di connaturato all’uomo, e di pericoloso, e che deve trovare dei controbilanciamenti continui per non diventare qualcosa di selvaggio ed ingestibile. Aggiunge che ognuno è sottoposto a questo rischio: anche la persona migliore, in situazioni in cui si trova a gestire un potere senza leggi che lo delimitino, rischia di credersi onnipotente e perdere il controllo. A questo proposito è interessante l’argomento del suo ultimo libro, Il sogno del celta. Roger Casement, il protagonista, viaggia in Africa in giovane età, convinto di trovare in corso d’opera la democratizzazione del Continente nero. Egli è sinceramente convinto della bontà della colonizzazione europea e non sospetta cosa questa nasconda facciata. Quando se ne rende conto, modifica il suo modo di vedere l’Europa e il potere che essa incarna. Dice Vargas Llosa, che le persone che in Africa si comportavano come schiavisti commettendo le atrocità più inenarrabili, nel loro paese (il Belgio ad esempio, colonizzatore del Congo) erano persone civili e stimate che mai si sarebbero sognate di commettere certe azioni riprovevoli. Essi stessi erano divenuti vittime del potere a loro assegnato, perché era un potere che, in Africa, non era arginato da alcuna legge. A quel punto il potere torna ad essere la semplice e brutale capacità di imporre il proprio volere sugli altri, anche con la forza. Queste sue dichiarazioni ritengo siano la sintesi sia della sua opera che della sua biografia. L’uomo Vargas Llosa ha rischiato di essere schiacciato dal potere, ha cercato di comprenderlo, prima con l’appoggio a Fidel Castro e poi con l’avvicinamento a visioni neoliberiste della società, ha tentato di prenderlo per le corna e domarlo con l’avventura delle elezioni, e nel mentre lo ha descritto in ogni sua declinazione, sempre per comprenderne la natura. Il punto finale della sua ricerca è da ritenersi quella che emerge dalle sue stesse parole: il potere riguarda (o può riguardare) tutti, e può tramutarsi in abuso in qualsiasi occasione, all’interno di qualsiasi ideologia o sistema politico per quanto possano sembrare perfette ed integerrime sulla carta. A questo punto la soluzione che ci suggerisce Mario Vargas Llosa è un’altra, e travalica generi, nazioni ed ideologie. Bisogna imbrigliare il potere con la legge e perché questa possa avere un’azione controbilanciante, è necessario che sia realmente uguale per tutti, per chi amministra il potere e per chi da questo potere viene amministrato. La motivazione data dal comitato del premio Nobel diventa così illuminante per comprendere non solo un grande scrittore della letteratura mondiale del novecento, ma anche per sottolineare un messaggio che, se compreso, rischierebbe di cambiare realmente il mondo.