I DOTTORI SONO BUONI QUI, E I TOPI ANCHE, E GLI INFERMIERI. NON MI POSSO LAMENTARE.
POTREI ESSERE CHIUSO NEL GUSCIO DI UNA PICCOLA NOCE E SENTIRMI IL RE DELL'UNIVERSO, MA FACCIO BRUTTI SOGNI, E POI SENTO SEMPRE QUELLE MALEDETTE VOCI DAGLI SCARICHI, CHE NON TACCIONO.

venerdì 25 dicembre 2009

Fatti vostri

Bene, la buona notizia è che Babbo Natale esiste. La cattiva è che non esiste più. Insomma, esisteva. E’ esistito, ora è morto. E’ capitato nel Luglio di quest’anno, nei sobborghi di San Pietroburgo. Il 5 Luglio, esattamente.
Da tutto ciò se ne può facilmente dedurre due logiche conseguenze: 1) Babbo Natale non era una scaltra invenzione per divertire ed affascinare i bambini, né una semplice scusa per spendere uno o più stipendi in regali inutili, 2) evidentemente non era immortale.

Immagino che lui stesso si credesse immortale, quantomeno alla fine, forse perché era vivo da così tanto tempo da non avere neppure più un lontano ricordo di come fosse venuto a questo mondo e di come fosse diventato Babbo Natale, quel vecchio iperglicemico che tutti noi conosciamo e che gli animalisti hanno sempre contestato per l’uso improprio che faceva delle proprie renne, povere bestie. Comunque, nonostante quello che potesse pensare di sé stesso, non era immortale, e in un certo senso è anche giusto così, cioè rientra nella natura delle cose, che avesse anche lui una fine, una data di scadenza stampigliata da qualche parte sotto la barba. Tutti dobbiamo morire, tutti moriamo, chi prima chi dopo, ognuno a modo suo, in fondo perché lui non avrebbe dovuto?
Ciò che fa piangere il cuore è il modo. Non si può certo dire che si sia trattato di una morte naturale, a meno che per morte naturale non si intenda un pallottola calibro 9 piantata alla base del cranio. Diciamoci la verità, s’era messo in un brutto giro, era dal 25 Dicembre dell’anno precedente che frequentava troppo brutta gente. Era ormai qualche mese che giravano voci sinistre sul suo conto, preoccupate, e puntualmente sono state confermate dalla squallida fine che lo ha colto in una sala privata del night club “TettePazzeTette” di San Pietroburgo.

Secondo le ricostruzioni che sono state proposte, la più accreditata racconta che l’anno scorso, il 2008, Babbo Natale fosse il solito zuzzurellone, anche se non rideva più come una volta, questo a detta di chi lo conosceva da vicino. Non che fosse cambiato, ma qualcosa pareva preoccuparlo. Si dice, avesse problemi di prostata, e temesse di dover essere operato. Babbo Natale odiava gli ospedali, li ha sempre odiati, anche da giovane, al punto tale che, come è risaputo, non ha mai consegnato neppure un solo regalo al più disgraziato dei degenti. Non ha mai voluto mettere piede in un ospedale, e la sola idea di dover venire ricoverato, addormentato e aperto nelle sue parti intime lo terrorizzava. Certo, continuava a fare il gradasso, come gli era solito, a ruttare a bocca aperta durante i pasti e intonare canzoni sconce in presenze di minorenni, ma ora si trattava di un comportamento che sembrava sempre più forzato del solito, quasi recitasse. Comunque, a parte questi problemi di salute, che probabilmente non sarebbero stati in grado di portarlo alla tomba, per il resto, era il solito Babbo Natale. Il 24 notte aveva cominciato a frustare oltre ogni dire le sue renne e s’era messo in volo, sempre per la solita storia dei pacchi dono per i bambini buoni, e aveva cominciato il suo lavoro, se così vogliamo chiamarlo.
E come ogni anno, anche se di solito non ci si pensa, il suo viaggio ha un inizio in un posto ben preciso della terra e una fine in un altro posto ben preciso, sempre della terra. L’anno scorso, il 2008, l’ultima casa in cui si fermò fu una villa a San Pietroburgo. Era quasi l’alba, le renne erano stremate ed erano ormai buone, come ogni anno, per lo stufato di capodanno. Babbo Natale si fermò nel viale di questa enorme villa gelida e perfetta, e si mise d’impegno ad aprire la serratura coi soliti attrezzi del mestiere. Stava sudando le proverbiali sette camicie quando, finalmente, riuscì ad aprire la porta che dava sul giardino retrostante la villa, e fu allora che sentì un ululato squarciargli la testa e rimbombargli nel petto e, prima ancora di capire che si trattasse di un allarme, si ritrovò una decina di energumeni dal collo taurino e lo sguardo di cemento che lo indicavano in mezzo agli occhi, tutti quanti con canne di pistola al posto delle dita. Non so se c’entrasse la prostata, comunque Babbo Natale se la fece addosso.
La villa era di un oligarchica russo, uno di cui evito volentieri di fare il nome, con due figli di tre e sette anni e una moglie di un metro e ottantadue centimetri che, a dirla tutta, non aveva nulla a che vedere con Mamma Natale né con quelle casalinghe solitarie nelle mutande delle quali, a volte, Babbo Natale riusciva ad infilarcisi, quando era fortunato e sufficientemente alticcio.
“ Casalinghe disperate “, aveva brontolato una volta Mamma Natale, guardando la televisione mentre Babbo Natale cercava di sgusciare in casa senza farsi accorgere.

Comunque, Babbo Natale venne portato in uno sgabuzzino enorme, più o meno delle dimensioni di un hangar, semibuio e freddo, e legato ad una sedia che proveniva direttamente da un comitato di quartiere del vecchio Pcus. Provò a spiegare chi fosse e perché stesse cercando di entrare in casa, ma i mastodonti che lo controllavano a vista non parevano minimamente interessati a quanto aveva da dire. C’era da dubitare che fossero tutti sordi o, più probabilmente, del tutto idioti. Alla fine, si stancò, depose le armi e decise di tacere.
Fu solo alla sera del 25 che la porta dell’hangar si aprii ed entrò il padrone di casa, cioè l’oligarca di cui evitiamo di ricordare il nome.

Considerando che non ne facciamo il nome, né il cognome, né la data di nascita né altro che possa aiutare ad identificarlo, possiamo anche dirlo tranquillamente, più che oligarca era mafioso, volendo immaginare che esista una differenza di significato tra i due termini.

L’uomo, l’oligarca e/o mafioso, da qui in avanti lo chiameremo X. X si fermò a qualche passo di distanza da Babbo Natale e lo fissò intensamente, poi, lentamente si aprì in un sorriso, << Liberatelo! Non vedete chi è?! >>, ordinò. Quando Babbo Natale gli fu di fronte, visibilmente sollevato e con stampato in faccia il più classico dei sorrisi benevoli da vecchio bonario, in piedi, ad una distanza tale da potergli tendere la mano, X gli sferrò un calcio nei coglioni, << Questo perché potrai anche essere Babbo Natale o Mago Merlino o chi cazzo pare a te, ma in casa mia, se si vuole entrare, si bussa, e anche così non è detto che ti eviti una manica di botte per esserti osato a bussare. >>, poi si aprì in un sorriso finalmente definitivo e sincero, prese Babbo Natale da sotto le ascelle, lo tirò in piedi e lo abbracciò. Gli schioccò tre sonori baci, l’ultimo dei quali sulla bocca, << Benvenuto amico mio. >>
Gli offrirono, nell’ordine: vodka del Bisonte, vodka del Coriandolo, una bottiglia di Albe de dessert, birra di Ziguli, poi ancora vodka, questa volta del Cacciatore, seguita da vodka del Volga, vino rosso italiano, e una vodka tipica di San Pietroburgo. Quando ebbe finito non aveva neppure più idea della direzione in cui si trovasse il cielo e in quale l’inferno, e ovviamente non ricordava di aver mai posseduto delle renne, né a cosa gli potessero servire delle renne, se non per farne giacche invernali.
Le renne d’altra parte era un pezzo che erano passate a miglior vita, crivellate da colpi di kalashnikov.
Quando Babbo Natale si risvegliò, con una mal di testa terribile e lo stomaco contorto come un serpente del Congo, era la notte dell’ultimo dell’anno e non ricordava più dove si trovasse, solo capiva di essere in mezzo ad una festa. Fuori qualcuno sparava in aria, e le sue labbra erano stranamente avvinghiate al capezzolo rosa di una ventenne, mentre un’altra ragazza che non pareva avere molti più anni della prima gli stava a cavalcioni urlando sconcezze in russo e colpendolo sulla barba con degli schiaffi. A volte lo colpiva sul cucuzzolo della testa canuta. Babbo Natale valutò che doveva essere ubriaca persa, e proprio mentre s’incupiva, contrariato dallo stato della gioventù moderna, un’altra ragazza, questa non seminuda come le altre due, ma nuda completa, senza neppure una goccia di sudore addosso, gli tappò il naso, gli aprì voluttuosamente la bocca e gli versò dentro un sorso più che generoso di Vodka del cacciatore.
Da lì in poi fu un turbinio di dita che gli stringevano le cavità nasali, e capezzoli che gli s’infilavano tra le labbra, liquidi ad alto grado alcolico che gli scivolavano lungo la laringe e sederi che gli sobbalzavano davanti agli occhi e mani piene come coppe felici. Gli pareva di aver intravisto il padrone di casa, da qualche parte in fondo a quell’immensa sala, e una donna bellissima che a sua volta doveva essere la padrona di casa, bionda alta e popputa, algida, poi la testa aveva preso a fare strane capovolte e alla fine aveva sentito un suono sordo che doveva essere stato quello provocato dall’impatto delle sue ossa craniche col pavimento.

Quando s’era risvegliato non ricordava più nulla dei regali che avrebbe dovuto consegnare ai due bambini figli del mafioso, né del fatto, peraltro incontestabile, che la terra fosse rotonda, né dell’esistenza da qualche parte nell’universo di una donna conosciuta come Mamma Natale. Qualcuno l’aveva poggiato contro un muro, un muro coperto di stucchi d’oro e vetri a tutta parete, e lui per tutto ringraziamento se n’era scivolato in terra come un sacco di patate. S’era toccato in mezzo ai pantaloni rossi e aveva scoperto una larga macchia scura e ancora tiepida e così capì di essersi pisciato addosso un’altra volta, e stavolta non per la paura. Per quel che riguardava la prostata poi, neppure sapeva più cosa fosse e, se avesse avuto la certezza di averne avuta una, l’avrebbe immersa in un bicchiere di vodka del Bisonte e se la sarebbe scolata tutta d’un fiato. Davanti a sé, a qualche metro o chilometro di distanza, doveva esserci un paio di tacchi alti che si muoveva al ritmo confuso di un notturno di Chaicoskij rimixato con bassi da discoteca da un dj della capitale, un pazzo cocainomane che si faceva chiamare Andrè e andava in giro con due pistole e una scimitarra. Mettendo a fuoco, a fatica, ciò che si trovava all’interno delle scarpe a tacco alto, vide due lunghe gambe bianche e sottili e un sedere tondo che pareva intagliato in marmo di Carrara, coperto solo da un tanga rosso la cui superficie totale non doveva superare il centimetro quadrato. Le gambe gli si avvicinarono sempre di più, fino a che non vide scendere dall’alto un seno generoso e un paio di braccia che lo aiutarono a tirarsi in piedi. Fu una scena pietosa, perché ancora non riusciva a stare ritto da solo e continuava a scivolare in terra, come se non avesse una struttura ossea, e in più non riusciva a mettere insieme una parola con l’altra, ingarbugliava vocali e consonanti, pezzi di frasi con mezze parole masticate e sputacchiava in giro come un vecchio alcolizzato.
Le gambe e il seno e le braccia, e anche le scarpe a tacco alto, appartenevano ad una ragazza di una trentacinquina d’anni, laureata in fisica nucleare, che ebbe pietà di lui e se lo prese in casa. Lo piazzò su una sedia e lo riempì di cibi scongelati e alcolici dalla gradazione assurda, fino a che, una sera, presa da una vena di malinconia, gli fece provare una certa polvere bianca che, a dirla con Pollon, sembra talco ma non è, e ti dà, tin!, l’allegria. Lo iniziò al sadomaso e lo fece entrare nei circoli fetish di San Pietroburgo, fino a che, alla fine, vista la sua propensione per l’ambiente, gli diede la gestione del night club TettePazzeTette. Fu davvero la fine.

Non si vestì più di rosso, per non sembrare un vecchio comunista nostalgico, cosa che non era mai stato in vita sua dal momento che non gli era mai importato un fico secco della politica, e prese ad indossare rigidi gessati Dolce e Gabbana, a fumare Cohiba rollati sulle cosce calde di vergini cubane e a giocare grosse somme alle corse dei cani. In men che non si dica, possedeva una squadra di calcio piena zeppa di brasiliani e gente dai cognomi che gli suonavano stranamente famigliari.
Stava per entrare nel giro che conta, cioè quello del petrolio, quando un sicario lo freddò all’interno del suo stesso locale. Era quasi perennemente impegnato in certe acrobazie con robuste ragazze di campagna che avrebbero potuto essere le sue pronipoti, e col cervello obnubilato da droghe e alcool. Non si rese conto di nulla quando la pallottola gli attraversò il cranio e si andò a piantare nel pavimento del suo ufficio, e non si chiese chi diavolo potesse avere interesse a mettere fine alla sua parabola esistenziale in questo mondo, non se lo chiese perché erano troppi, e tutti senza scrupoli.
Le ultime due parole che gli passarono per la testa, appena prima della pallottola, furono “ Mamma “ e “ Natale “, un unico veloce lampo di terrore e ancora una volta la vescica gli cedette, in perfetto sincro col passaggio della pallottola nel suo cervello, e si trovò a morire nella propria urina.

Dunque, Babbo Natale non era immortale. Babbo Natale se la faceva spesso addosso, almeno negli ultimi tempi. Babbo Natale, comunque, è esistito, anche se… Vabbè, meglio lasciar perdere.
Ora stanno preparando magliette e bandiere, accendini e via discorrendo, tutti con su stampata la faccia stilizzata di Babbo Natale, perché pare che vogliano farlo passare come l’eroe di una nuova rivoluzione popolare. Non voglio saperne di più. Forse non era un santo, va bene, ma ridicolizzarlo come icona di qualcosa che non esiste, questo non lo voglio nemmeno sapere.
Quello che deciderete di raccontare ai vostri figli, a questo punto, sono fatti vostri.

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